S’era alzato all’improvviso e quasi gli era girata la testa mentre si dirigeva allo porta per vedere chi aveva suonato. Bastavano pochi passi, un mezzo respiro ed era arrivato. Lo spioncino non lo usava, sapeva di signorina so tutto io, acquattata fuori dal mondo e decisa a carpirne i segreti. No, non faceva per lui. Era a posto? Non aveva uno specchio a portata di occhi.
Aprì d’un colpo e il vento aumentò. Colpa della corrente. Dal terrazzo fluiva un’aria calda ed affettuosa che ancora sembrava conoscere il profumo dei fiori. L’aria che risaliva le scale era fredda, incrostata di unto, priva di intenzioni. Ma questo non aveva importanza. Ciò che lo colpì fu l’assenza di qualcuno fuori dalla porta.
C’era lo zerbino verde bottiglia calpestata, la kenzia che la signorina Anceschi si ostinava a volere posizionata nell’angolo. I gradini erano silenziosi e l’ascensore, fermo al suo piano, aperto, restituiva la sua immagine riflessa nello specchio. I suoi capelli erano in ordine, i vestiti pure e se qualcuno si fosse fatto trovare davanti alla sua porta non avrebbe ricevuto brutto sorprese. Forse un thè alla menta, due dei biscotti che aveva acquistato da Maya al mattino, una sedia scomoda e impolverata, un po’ di vento ma senza pretese.
Richiuse la porta. Non vide il piccolo pacchetto, avvolto in carta da pacchi marrone e spago nero, piegato sul pavimento come un oggetto non identificato in cerca di padrone. Si servì di pochi passi per riattraversare l’appartamento. Prese il thè, i biscotti e si arrese alla sedia scomoda della terrazza. Lasciò che il vento gli camminasse un po’ addosso. Sorrise come se il vento non servisse che a questo: scompigliargli la faccia e giocare a farlo apparire diverso.
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